Alla vigilia di un nuovo decreto ministeriale (che lascerà tutti delusi, perché rimanderà ancora di un po’ di giorni la possibilità di rivedere amici e di riacquistare un po’ di libertà di movimento) riflettiamo sulla performance, e sulla possibilità di fare performance in questo momento storico.
La pandemia ha messo in crisi la relazione tra i corpi: il distanziamento sociale ha delle conseguenze sul mondo in cui ci relazioniamo con gli altri, e anche sul modo in cui pensiamo la relazione con gli spazi.
Contemporaneamente, questa pandemia è stata vissuta in modo performativo da molti giovanissimi: il social network Tik Tok, per esempio, ha preso sempre più piede tra gli adolescenti, tanto da creare un trend in cui ironicamente i ragazzi sorridono sul fatto che, quando tra vent’anni si troveranno a rispondere alle domande che i loro possibili figli rivolgeranno riguardo a come sono sopravvissuti durante la grande pandemia di inizio millennio, loro avranno una grande raccolta di video di balletti da mostrare.
Performare attraverso lo schermo diventa parte del quotidiano, intrappolato in una sequela di videochiamate che sostituiscono riunioni, lezioni, aperitivi, chiacchiere. Anche gli artisti ragionano sulla possibilità di trasferire la performance in rete; si creano dibattiti e spaccature tra chi intravede nel web una possibilità, e chi si oppone alla smaterializzazione dei corpi, auspicando a gran voce la riconquista di piazze, teatri, palchi, musei, strade.
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